Per me viaggiare è sempre stato essenziale.

La pace interiore, il benessere fisico e mentale li raggiungo a contatto con le novità che mi sorprendono e mi coinvolgono durante gli spostamenti.

I miei viaggi rappresentano i miei desideri realizzati.

Durante notti insonni la mia tranquillità dipende dall’ascolto di musica o da immagini mentali che per ora conservo e che vengono da me rivisitate con saltellante partecipazione.

Salto infatti da un ricordo a un altro, da un paese a un altro, da un’emozione a un sorriso.

Non so, in questo abbondante miscuglio, quale raccontare.

Ho iniziato a viaggiare negli anni ’46-’50, ogni parente che organizzava gite mi invitava a partecipare. Con mia sorella, che era già laureata quando avevo dieci anni, ho girato da sola nelle cittadine dove seguiva gli esami di maturità (Arezzo, Sansepolcro, Castelfiorentino, Cortona…). A Roma e dintorni, quando lei era chiamata per gli esami statali, tante avventure (mai negative), in questo muovermi sola in luoghi sconosciuti.

Una delle scoperte più affascinanti fu Villa Adriana e Villa d’Este a Tivoli, era inverno e il ghiaccio aveva bloccato i getti delle fontane.

Avevo circa 13 anni quando mia cugina, maestra a Raggioli, mi invitò a trascorrere alcuni giorni sotto Vallombrosa. Un territorio, per me, tutto da scoprire. Una mattina mi sono incamminata su per il bosco.

Ho camminato per ore e ore dimenticando il pranzo, lasciando e ritrovando sentieri senza incontrare mai nessuno fino quasi al tramonto. Il buio che aveva oscurato il bosco mi ha un po’ preoccupato. Ho udito un motore. Era un camioncino con due boscaioli. Alla mia richiesta, molto stupiti, gentilmente mi hanno portato indietro. Ho dimenticato presto i rimproveri di mia cugina per ricordare estatica quel silenzio, quel salire, l’andare senza scopo verso una meta sconosciuta, senza tener conto del tempo. Durante la mia vita ho molti ricordi di questo tipo. Qualche volta mi sono persa in qualche città o in qualche grande museo o camminando per ore lungo qualche spiaggia.

Il camminare senza meta è una delle attività che ricordo più volentieri. Una volta con Pierangelo eravamo in una spiaggia in Normandia.

Il mare ritirandosi ci invitava. Abbiamo lasciato scarpe e quasi tutto il nostro equipaggiamento pensando di fare qualche passo. Invece ci siamo allontanati per qualche chilometro.

Ero in estasi. Un leggero gorgoglio che proveniva dal terreno era musica e l’orizzonte irresistibile. Il terreno era lucente perché conservava tracce di acqua. Il cielo chiaro e luminoso.

Quando abbiamo deciso di tornare indietro ci siamo stupiti per quanto ci eravamo allontanati.

Non abbiamo più trovato le scarpe e gli indumenti. Avviliti, dopo molte ricerche, ci siamo avviati, scalzi e senza le altre piccole necessità, verso il mezzo che doveva riportarci all’albergo.

A un certo punto ho insistito per tornare indietro. Ero certa che nessuno ci aveva derubato.

Così abbiamo scoperto che avevamo perduto il punto di riferimento e non eravamo ritornati al punto di partenza.

Quale allegria scoprendo che il mucchietto delle nostre cose era ancora lì.

L’ampiezza, la novità, la bellezza che ci circondava ci aveva ingannato.

Durante il nostro lungo percorso eravamo rimasti stupiti dal silenzio sorprendente di qualche grosso carro su gomme, trainato da cavalli biondi e con frange sugli zoccoli. Sopra tanti passeggeri che ammiravano con occhi spalancati come i nostri.

Dai miei diciotto anni mi sono organizzata da sola contattando l’Istituto Francese, l’Istituto Britannico e il Movimento Forestieri di Via Vecchietti. In quei primi anni dopo la guerra c’era molto spazio e pochi pericoli.

Nel 1953 in Svizzera ho frequentato un collegio estivo per “jeunes filles” a Vevey sul Lago di Ginevra. Una bella sensazione trovandomi tra mie coetanee che provenivano da ogni parte del mondo (dalla Norvegia, dall’Africa, dal Brasile). Mi fu proposto di trascorrere un breve periodo a Gryon sulle montagne Les Diablerets. Un bellissimo posto dove tutte le ospiti dovevano subire a sorpresa sadici esperimenti che servivano agli studi psichiatrici della figlia della Direttrice.

Appena arrivata alla porta dello chalet fui chiamata dall’alto e quando alzai la testa fui investita dall’acqua di un secchio. Una notte ci svegliò un grande fracasso che proveniva dalle tubature poste dietro la testa. Si dormiva in quattro in una cameretta con letti a castello. Pochissimo spazio e durante la notte la luce veniva spenta. Nel buio si capì che nella stanzetta era entrato qualcosa che sbatteva in silenzio qua e là. Provai ad allungare le mani e via via toccai del pelo ruvido, poi corna, un muso morbido: era un caprone.

Rimasi alcuni giorni in attesa di episodi sconcertanti e decisi di tornare nella tranquilla Vevey.

L’anno seguente iniziai a percorrere l’Europa del Nord con l’amica dell’Accademia Emanuela Politi.

Il Movimento Forestieri ci procurava dei “biglietti circolari” per il treno senza scadenza. Potevamo muoverci liberamente dappertutto, ampliando i percorsi con l’autostop.

Per poche lire si dormiva nei castelli (Ostelli della Gioventù) e avevamo a disposizione grandi sale piene di letti vuoti. Le ragazze stavano ancora al mare con i genitori!!!!

Tanti ricordi preziosi durante le vacanze in Germania. Rimanevano ancora molte tracce di rovine di guerra. A metà anni Cin- quanta si poteva godere di ampi spazi all’aperto ma ancora non venivano organizzate esposizioni.

Prima di andare in Inghilterra abbiamo visitato e scoperto città e paesi, nei mesi delle varie estati, in Svizzera, in Germania, Olanda, Belgio, etc… Solo un esempio di questi fantastici ricordi. In molti paesi e isole Olandesi trovavamo tutti, anche i bambini, nel tradizionale costume, con gli zoccoli di legno ai piedi. Gli uomini vestiti completamente di lana nera con strani berretti, seduti fuori dalla porta di casa. Occhi pieni di curiosità ci scrutavano. Abbiamo trascorso giorni e giorni visitando a Bruxelles l’Esposizione Universale del 1958. I vari padiglioni ci suggerivano il futuro. L’Atomium, sovrastando tutto, prometteva, come poi è stato, grandi mutamenti.

Un’insaziabile fame di novità ci rendeva instancabili. Quella fame che alimenta il cervello ce l’ho ancora.

I libri che amo, che guardo, che leggo invece di saziarmi mi spingono verso altro da leggere o vedere.

In Provenza mi fa piacere ricordare almeno tre posti: il Parco Naturale dell’Estérel con una cittadina che si chiama Fréjus Les Baux, Arles e Saint-Paul-de-Vence, Collezione Maeght.

Uno dei fratelli di mio padre mi ha portato a Vienna nel 1955 e più tardi nel 1957 a Parigi e dintorni. Ore magiche trascorse di primo mattino a Les Halles, prima del cambiamento, e pomeriggi nel giardino di Versailles, e nei dintorni di Parigi la casa di Millet.

Parigi ha costituito uno dei terreni di caccia. Sono stata molti giorni a 23 anni con mio zio Guido. In seguito sono riuscita a visitarla tante volte attivando scambi di ospitalità. Il primo con Henry Marchal, direttore del Musée National des Arts Africains et Océaniens. Tra le altre meraviglie mi propose di visitare il Louvre un giorno di chiusura con la sua amica Marie-Hèlène Rutschowscaya curatrice di tessuti antichi africani e orientali.

Ricordo il silenzio delle grandissime stanze; pesanti porte le separavano e lei le apriva con leggeri scricchiolii quando usava la chiave. Il passaggio da una porta all’altra mi dava l’impressione che mi stava accadendo qualcosa di irreale.

Ho avuto anche la possibilità di usufruire di vari scambi con i Bramel, lei parigina lui di New York, possedevano un appartamento in Rue de Montmorency molto vicino al Centre Pompidou. Per le mie scorribande ho potuto usare una loro bicicletta quando a Parigi non se ne vedevano. Parigi era diventata per me una piccola città. Ho potuto visitare anche le abitazioni di vari artisti lontane dal centro: la casa di Delacroix e il suo giardino, la grande Maison di Gustave Moreau etc.

Nel 1987 mi spinsi da sola a visitare l’Institut du Monde Arabe, costruito su progetto di Jean Nouvel, appena inaugurato. Mi ritrovai completamente in solitudine, senza visitatori, senza sorveglianti a percorrere immense sale su più piani, attratta solo dalle finestre che occupavano ogni parete esterna. Ogni parete divisa in tanti quadrati schermati dai raggi solari tramite un diaframma automatico collegato a un sistema di cellule fotoelettriche. La luce proponeva continue mutazioni di colore e forme.

Nella casa dei Bramel sono tornata varie volte in compagnia di amiche, di Sibilla e più tardi di Pierangelo.

A New York, Mrs Marvin Levine “Reinette” mi fu presentata da Anne Bahrenburg Barbetti. Aveva in Madison Avenue il “Mediterranean Shop”. Abbiamo avuto per anni un interessante rapporto di lavoro, ogni anno veniva a Firenze per acquisti. Conservo molte lettere in cui lei si congratulava con me per quanto fossero perfetti i lavori che le spedivo. Mrs Donald Hyde di Princeton e molti altri dal Texas durante un lungo periodo mi hanno commissionato molte opere.

Simona e Pietro Quiriconi costituiscono tra i più piacevoli ricordi. Stavano a Milano poi si sono trasferiti a New York e ancora dopo in Brasile. Ne abbiamo purtroppo perso le tracce. Ho eseguito molti quadri per loro (me ne hanno prestati alcuni per esposizioni importanti nel periodo 1980-1985). Quando nel 1986 sono stata a New York, Pietro aveva lo studio in una delle Torri Gemelle. L’abbiamo visitato ed ha invitato Anne Barbetti e me al ristorante dell’ultimo piano. Ricordo un ascensore enorme che in pochi secondi ci ha portato su.

Una vista a 360° su New York; i fiumi, il mare, il onte di Brooklyn, la Statua della Libertà.

Quando nel 2001 fui chiamata al telefono e spinta a guardare in televisione l’attentato che le ha distrutte sono rimasta tremendamente ferita.

Anche i giorni che seguivano non riuscivo a digerire che quelle meraviglie fossero state distrutte.

Allora piano piano iniziai a cucire sassi per crearmi una corazza. Era molto pesante, quando fui a metà dell’opera continuai solo perché mi sembrava che questa corazza avrebbe rappresentato una difesa per me e la mia famiglia.

Corazza, realizzata nel 2001 con valore apotropaico dopo il crollo delle Torri Gemelle, posta davanti a una finestra di Via Masaccio, casa-studio di ESP. Sassi raccolti in precedenza in varie spiagge, cuciti con fili da ricamo su pellicola trasparente. Foto ESP.

Ad un tratto mi è tornato in mente un incontro avvenuto nel 1985 a New York.

Quando ero là rimasi sola perché Anne Bahrenburg Barbetti andava in Florida dalla madre. Il MoMA era vicino al nostro albergo e avevo rimandato il momento di visitarlo proprio perché potevo raggiungerlo a piedi.

Andando, mi rivolse la parola un uomo che era con il figlio. Mi chiese del MoMA e quindi proseguimmo insieme. Dopo poco si scoprì di essere italiani. Iniziò una conversazione che durò quasi una giornata. Così scoprii che stavo parlando con Enrico Baj. Aveva fatto una mostra a Miami. Aveva venduto bene, consigliò anche a me di andare. Ammirammo insieme tanti quadri e sculture. Alla fine mi dette il suo indirizzo e telefono e mi disse che avrebbe aspettato una visita. Io ricordavo bene i suoi “generali” veduti a Venezia anni prima e mi sarebbe piaciuto approfondire la conoscenza con lui, ma non ho mai avuto tempo.