Durante uno dei miei soggiorni a Londra, a metà degli anni Cinquanta, ammirai al Victoria & Albert Museum ricami toscani esposti come capolavori preziosi.

Qualche anno più tardi a Milano a Palazzo Reale, visitai una mostra di astrattisti inglesi e fui obbligata a percorrere quaranta stanze. Mi fu proibito uscire dall’entrata.

Pitture con colori, righe e pallini, un caos dove non si distingueva un artista dall’altro. Decisi allora di occuparmi e di approfondire un percorso solo mio di ricerca e di perfezionamento collegato al lavoro di mia madre.

Il mio lavoro incontrò l’entusiasmo di molti che non riuscivano ad apprezzare l’arte Informale.

Ho avuto la possibilità dai primi anni Ottanta in poi di allestire esposizioni dei miei quadri negli spazi pubblici più prestigiosi. Spesso accadeva che qualcuno dei miei lavori suscitasse l’interesse e che io trovassi acquirenti direttamente. In seguito al successo delle mie esposizioni ebbi molte proposte di alcune gallerie a Milano e a Roma. Ma non potei accettarle.

I miei ritmi dovevano tener conto dei miei tempi lunghi di lavoro, di obblighi familiari e, per quanto fosse possibile, della mia grande necessità di autonomia.

Già prima del 1995 ho avvertito che forse era arrivato il momento di sviluppare nuovi progetti.

Sentivo che, per rispetto di me stessa, almeno certe ore della giornata dovevano essere a disposizione delle mie ricerche e delle mie emozioni.

In nome di tante donne che sono state e sono sfruttate, obbligate ad ubbidire, a sacrificarsi, a modellare la propria vita sulle esigenze di altri, io avrei cercato di realizzare qualcosa che dipendesse solo dalla somma dei miei interessi, dei miei studi e delle mie incertezze.

Ogni artista cerca di crearsi un proprio percorso: sarà un percorrere strade solitarie senza cercare sicurezze che gli permetta di procedere guardando fuori dai soliti orizzonti.

Se si trova un artista che ha creato qualcosa, che ci piace molto, penso che si debba condividere con gli occhi il suo successo ma non cercare di imitarlo.

Sicuramente le differenze saranno tali da rendere inutile, pericoloso e disonesto appropriarci di un linguaggio non nostro. La solitudine non mi ha mai spaventato. Ho preferito sempre la solitudine ai contatti poco convincenti.

Se mi procuravo il vuoto intorno, risolvevo il problema dandomi da fare, magari ne nascevano inaspettate fonti di soddisfazione. Nella solitudine, approfondendo serenamente qualcosa che ad altri non avrebbe fatto la stessa impressione, ho trovato spesso concentrazione e maggiori appagamenti interiori.

Con soddisfazione noto un nuovo atteggiamento di curatori e studiosi di arte contemporanea verso le decisioni e i comportamenti degli artisti.

I rapporti si sviluppano con scambi di parole, non su congetture o idee basate su certezze superate, formate su canoni estetici che non tengono conto che ogni epoca sviluppa linguaggi diversi dai precedenti.

Quanto ai successi economici che rendono famosi e ricchi alcuni artisti provo una certa indifferenza e mi sento lontana sia dalle loro opere (vedi Damien Hirst) sia da quello che sanno ottenere. Cattelan è un caso a parte. Mi interessa e leggo sempre le sue parole.

Ricordo di essere rimasta incantata da un bambino che suona il tamburo. Lo notai e lo apprezzai quando ancora non era così famoso, anni fa sul tetto del Museo Ludwig a Colonia. Altre opere sue che colpiscono l’attenzione e suscitano le reazioni delle persone, le reputo delle provocazioni. Questo modo di agire procura l’attenzione degli estranei e dei profitti economici.